Sarà mai un nuovo giorno per San Ferdinando?

Dieci anni di fondi stanziati, tavoli di lavoro, protocolli. Ma cosa è cambiato?

Come nasce una tendopoli?
Dalla mancata gestione dei flussi bracciantili e della loro regolarizzazione deriva l’impasse in cui versano il comune di San Ferdinando e la vicina Rosarno, punti strategici per lo stanziamento dei migranti che lavorano nei campi della Piana lametina e di Gioia Tauro.
A San Ferdinando (RC), il fallimento delle amministrazioni è assenza di visione, di consapevolezza che l’espressione ultima di un cortocircuito economico quale la filiera del cibo abbia radici fuori dal contesto regionale, a Bruxelles. Solo ora la pandemia sta obbligando la politica europea ad affrontare il nodo dei diritti sociali mentre si attende ancora il cambio di passo sulla politica migratoria. Sul territorio, dunque, chi è ben intenzionato non riesce a leggere i fenomeni multilivello, chi invece non vuole intervenire dissipa i fondi.

San Ferdinando, che durante l’emergenza sanitaria è apparso sulle testate nazionali accanto alle parole “tendopoli”, “emergenza”, “precarie condizioni igieniche”, in realtà versa in precarie condizioni umane da ben prima del Coronavirus.
Già nel 2006 il The Guardian anticipava all’attenzione internazionale quelle che nel 2018 l’ONU avrebbe definito “contemporanee forme di schiavitù” in un rapporto sui campi agricoli del Sud Italia.
Una storia di soprusi lunga quanto i goffi tentativi di risoluzione della Regione Calabria, figli di una visione emergenziale di un problema strutturale. L’ultimo stanziamento risale alla fine del maggio scorso nell’ambito del progetto “Su.Pr.Eme” e prevede 3 milioni e mezzo di euro per “contrastare le forme di precarietà alloggiativa e di grave sfruttamento lavorativo e marginalità/vulnerabilità dei migranti negli insediamenti informali” delle Piane di Gioia Tauro e di Sibari nel cosentino . Le aree a cui sono destinati i fondi includono investimenti sul trasporto destinati alla mobilità lavorativa bracciantile e la promozione di un sistema di accoglienza diffusa nel territorio, anche attraverso la riqualificazione di edifici del patrimonio pubblico e di beni confiscati alla mafia.

Ma perchè dovremmo ritenere questo intervento risolutivo?

Più che incontrare l’alba di un nuovo giorno, questi territori vivono un perenne tramonto. La gestione dei fondi erogati negli ultimi 10 anni ai due comuni, infatti, ha giocato un ruolo cruciale nella perpetuazione di una condizione di limbo, tra l’illusione di un cambiamento e l’assenza di una realtà risolutiva.
Nel 2010, pochi mesi dopo la rivolta di Rosarno, il Ministero dell’Interno stanzia 2 milioni di euro. I fondi, gestiti dall’amministrazione dell’allora neo Sindaca di Rosarno Elisabetta Tripodi, vengono usati per iniziare i lavori di riconfigurazione di un immobile confiscato alla mafia e realizzare il Villaggio della Solidarietà, struttura che prevedeva uno sportello front-office per l’assistenza professionale ai migranti. Non rispondendo però a quelli che erano i bisogni immediati, il progetto iniziale viene modificato e, su autorizzazione del Ministero, vengono posati dei container che contavano circa 150 posti letto. Nel 2015, quando l’impresa che si era aggiudicata l’appalto viene colpita da un’inchiesta antimafia, i lavori giungono a un punto di stallo. «Subiamo l’ispezione del Ministero che voleva revocare i fondi. Chiediamo una proroga fino al 30 settembre 2015, che viene accordata. Io cado dall’amministrazione a maggio 2015 e faccio presente al Commissario Prefettizio nominato a giugno che occorreva completare il tutto; il Viceprefetto mi assicura che così sarebbe stato. Vengo però a sapere, un anno dopo, che quei fondi erano persi e che nessun intervento era stato in realtà fatto», sostiene oggi Tripodi.
I lavori dunque non sono mai stati completati e a marzo 2016 la struttura viene occupata da alcune famiglie rosarnesi. Oggi, dopo essere stata oggetto di atti vandalici, quel che rimane del Villaggio della Solidarietà è una struttura votata all’abbandono che la rende l’ennesimo ecomostro calabrese.
Nel 2011 nell’ambito del progetto “Immigrati in Calabria”, vengono stanziati dalla Regione altri 3 milioni attinti da fondi europei PISU, vincolati a specifiche aree in cui vivono fasce della popolazione a rischio di marginalità sociale. Tripodi afferma che Rosarno sia stato l’unico comune in sofferenza ad aver proposto progetti da realizzare, nella fattispecie 36 appartamenti nuovi da destinare ai migranti e la riqualificazione, per lo stesso fine, di un altro edificio confiscato alla mafia. I lavori sono iniziati nel 2015 e terminati nel 2018. Oggi questi appartamenti, benché pronti da due anni, sono ancora vuoti. Uno dei motivi sembra essere la riluttanza del sindaco di Rosarno, Giuseppe Idà, ad assegnarli esclusivamente ai migranti, ritenendolo discriminatorio nei confronti di altre fasce della popolazione rosarnese a rischio povertà: da qui risulta un suo appello alla Regione Calabria. «In realtà» continua Tripodi «c’è un progetto in corso di esecuzione dell’A.T.E.R.P. per la costruzione di alloggi popolari. Si poteva semplicemente destinare ai rosarnesi i nuovi alloggi e ai migranti le palazzine, vicine tra l’altro al luogo dove stanno costruendo le nuove case popolari [nell’ottica di evitare la creazione di un nuovo ghetto ndr]».
Nel febbraio 2011, imperversando la crisi abitativa dei braccianti, il Comune di Rosarno con la Protezione Civile realizza il campo container “Testa dell’Acqua” fornito di luce, servizi igienici, acqua calda per un totale di circa 120 posti. Il campo, che doveva essere «una soluzione temporanea in attesa di provvedimenti definitivi», rimane aperto per 5 mesi e la sua gestione ha un costo di circa 15000 euro. Ma in assenza di progressi viene riaperto a novembre.
Si arriva al 2012 quando, risultando insufficiente perfino il campo container, viene realizzata la prima delle quattro tendopoli che si susseguiranno nel corso di 8 anni – quella del 2017 costerà, da sola, 400 mila euro.

Ma davvero a bloccare l’assegnazione degli alloggi, realizzati e ormai vandalizzati e dunque persi da tutta la comunità, è stata la contrapposizione tra beneficiari autoctoni e braccianti stagionali? Il Sindaco Idà aveva indicato la soluzione giusta per dirimere questo conflitto? Secondo Tripodi «per la convivenza ancora non si è pronti, è un problema culturale di accettazione della diversità, e del nero rispetto a un migrante bianco ».
Quando l’azione amministrativa si rivela fallace è il momento di chiedersi cosa è mancato nell’elaborazione culturale di una problematica. I provvedimenti che tardano ad arrivare – o vengono formulati in maniera parziale – rivelano spesso l’assenza della comprensione delle dinamiche e la necessità di un intervento legislativo.
La legge sul caporalato ne è un chiaro esempio. Il malsano meccanismo in cui versa la filiera agroalimentare, stretta tra le pratiche sleali della GDO e le agromafie, induce i produttori a ricorrere all’operato dei caporali per ottenere manodopera a basso costo. Il freno giuridico che punisce questa intermediazione illecita arriva solo nel 2011, quando la legge sul caporalato diventata oggetto del Codice Penale con l’introduzione dell’art.603-bis. Solo cinque anni più tardi, nel 2016, questa legge viene perfezionata riconoscendo finalmente uguale responsabilità penale ai padroni.
Ancora, di natura profondamente culturale è l’incapacità di mettere in piedi un sistema di accoglienza diffusa sul territorio, che consenta di alleggerire il carico ai comuni di Rosarno e San Ferdinando e di favorire l’integrazione dei migranti nella comunità. Ma come fare se in Calabria manca un sistema pubblico efficiente di trasporti? Questo permetterebbe ai braccianti di spostarsi facilmente dall’entroterra ai campi sulla costa andando anche a ripopolare le famose aree interne. Si pronuncia a questo proposito l’Unione Sindacale di Base, che critica l’idea, espressa nell’ultimo protocollo della Prefettura di Reggio Calabria, di introdurre dei moduli abitativi e delle navette di trasporto ad hoc per i braccianti. Duplice la ragione: da un lato il pericolo della ghettizzazione, dall’altro la volontaria elusione della natura collettiva del problema dei trasporti, un diritto che in Calabria è negato a tutti.
E proprio la Prefettura di Reggio Calabria deve essere chiamata alle sue responsabilità nella non gestione di questo conflitto, in forza del suo ruolo di concertazione quale emanazione sul territorio metropolitano del Ministero dell’Interno. Nel febbraio 2016, l’allora Prefetto Sammartino firma il Protocollo operativo in materia di accoglienza ed integrazione degli immigrati nella piana di Gioia Tauro tra i cui obiettivi “lo smantellamento dello stesso attendamento [quello di San Ferdinando ndr], mediante la individuazione e celere realizzazione di politiche attive di accoglienza ed integrazione nel tessuto sociale locale, da attuarsi da parte della Regione e dei Comuni competenti, finalizzate ad una idonea sistemazione abitativa dei migranti”. Il Prefetto Di Bari, che si insedia a settembre dello stesso anno, sigla altri due protocolli di cui del primo, annunciato nella conferenza stampa del 16 marzo 2018, non è possibile rinvenire il testo nell’archivio online della Prefettura.
Nel protocollo del maggio 2019 viene richiamato il sistema di accoglienza diffusa, in assenza però di una lista programmatica di interventi da attuare a lungo termine con questo fine. All’opposto si parla, invece, degli interventi da effettuare sulla tendopoli per migliorare le condizioni igienico-sanitarie “nell’immediato”. Tre giorni dopo la firma, il Prefetto Di Bari lascia il suo incarico per divenire, su proposta del Ministro degli Interni, On. Salvini, Capo del Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione. Con l’inizio della pandemia, le condizioni igienico-sanitarie mai sanate degli attendamenti diventano nuovamente necessità di “intervenire tempestivamente”. Ma, ancora una volta, alle dichiarazioni di emergenza non seguono i fatti.

Infine, si arriva ad oggi col progetto “Su.Pr.Eme”: un piano di 3 milioni e mezzo che si promette di risolvere radicalmente ogni problema, e di ricucire gli strappi di comunità impoverite e dilaniate come quelle di Rosarno e di San Ferdinando. Il paradosso sta proprio nel dover sperare in questo nuovo stanziamento. Non c’è difatti mai stato un vero tema di reperimento dei fondi e in 10 anni sono stati dissipati milioni, senza che ciò comportasse il compimento delle opere iniziate e la risoluzione delle contrapposizioni ormai insite nel territorio. La comunità non ha ancora messo sotto processo il fallimento radicale delle continue soluzioni emergenziali che soffrono dell’assenza di un chiaro orizzonte. Il disaccoppiamento delle tematiche migratorie e bracciantili sebbene da una parte auspicabile per evitare di ricadere nella retorica delle risorse, è dall’altra parte impossibile per i cittadini che abitano luoghi a vocazione agricola dove le aberrazioni del sistema sono dinanzi agli occhi di tutti. Una narrazione fallace può tuttavia portare all’inversione dei rapporti di cause ed effetto, poiché la massiccia presenza dei migranti nei campi deriva dai cortocircuiti della filiera agroalimentare e non dai numeri con cui arrivano sulle nostre coste. Circa il 70% dei braccianti è difatti in realtà italiano, ma questi cortocircuiti aprono scorciatoie e vuoti di legalità al lavoro nero, che si nutre della condizione di invisibilità di chi non possiede documenti. Una questione che è arrivata forse ancora troppo debolmente sul dibattito nazionale in seguito al Decreto Bellanova per l’emersione del lavoro nero. E, invece, quanto si potrebbe ottenere per il complesso dei lavoratori e dei produttori se la Giunta Regionale affrontasse i suoi mostri e comprendesse che l’enormità dei problemi sistemici che affronta nella filiera agroindustriale si può risolvere solo facendo fronte comune con le altre regioni italiane ed europee vittime delle stesse contraddizioni, come il Sud della Spagna che presenta quelle tendopoli della vergogna che ben conosciamo.
Terra di schiavitù. Così è, da almeno 40 anni, tanto per i calabresi autoctoni che lavorano i campi quanto per gli ultimi tra gli ultimi, i migranti senza documenti. Libera è solo la decisione se continuare ad esserlo.

150 150 Think Tank Collettivo Peppe Valarioti

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